Conoscendo Fatichi si può affermare con una buona dose di approssimazione che egli si muove all’insegna di una costante e sistematica interrogazione: che la sua sia insomma un’arte fortemente riflessiva. Ciò nonostante per un verso è riuscito ad evitare le secche di quella asfittica ricerca dei fondamenti essenziali della pratica pittorica che caratterizzò buona parte della tradizione modernista (“greenberghiana”) tanto più paralizzante quanto più impermeabile alla storia. Per l’altro ha scansato le ibride soluzioni avanzate dall’arte concettuale, dove il verbale prende solitamente il sopravvento sul visivo. Diciamo allora che l’interrogazione non si limita alla dimensione strettamente linguistica, ma va oltre : riguarda i rapporti tra linguaggio pittorico e m ondo, tra forma ed empiria. Cerchiamo di chiarire questo punto. È ormai scontato ribadire che la pittura si dà come vero e proprio sapere attraverso il quale l’uomo si confronta con l’ out there , risolvendo il reale in una originale e peculiare acquisizione (visiva). Prendiamo il dipinto centrato sulla foglia (Aptico e ottico, 1997 ). La foglia dichiara qui uno scheletro, un suo schema strutturale rigoroso e apparentemente “oggettivo”: la presenza dell’occhio sta lì a ricordarci che quello schema è una conquista. Che l’occhio propone un modello attraverso il quale ci si impadronisce del dato. Quindi il dato esiste solo all’interno di “reti” e categorie interpretative, all’interno della prospettiva aperta dalla pratica conoscitiva in cui si opera: nella fattispecie quella pittorica da intendere al pari delle altre come una vera e propria mediazione. Fatichi queste cose le sa benissimo ( le dà per acquisite ),come sa anche che occorre andare più a fondo. Perché il problema non è più o solo quello di identificare ciò che distingue il sapere scientifico da quello visivo, quanto di appurare se quello visivo, e nella fattispecie pittorico, non possa intrattenere un “commercio” più intenso con la realtà fenomenica. Questo intendevamo quando parlavamo della necessità avvertita dal Fatichi di andare oltre.

Nella scienza noi ritroviamo la realtà delle ultime e supreme astrazioni proprio perché si segue un criterio epistemico e non espressivo: si tratta della strada che va “in su” e “in giù” , che ha una salita ed una discesa, che è verticale e non orizzontale. La scienza si riconosce in quello spazio di astrazione che è lo strumento o tratto distintivo della rappresentazione epistemica. Parliamo di uno spazio di astrazione che sta al di sopra e non che preme. Ma non avviene così nel caso dell’arte in cui al contrario s’incrina l’idea di una percezione subordinata alla logica dell’astrazione. Lo sforzo di Fatichi è appunto teso a riposizionare orizzontalmente la ricerca: quasi che il punto di partenza vada commisurato con la realtà oggettiva, quasi che in arte l’intensità dello scavo visivo, la strumentazione tecnica, insomma la prassi pittorica nel suo complesso, sia in grado di bilanciare e riallineare (o riportare) la percezione direttamente a contatto con le cose. Se la percezione è autonoma dalle convenzioni della rappresentazione (scientifica), se è possibile uno spazio dell’espressione discontinuo rispetto a quello epistemico, l’accento cadrà sulla possibilità di fare i conti con un’empiria radicale che ecceda o oltrepassi proprio quella rappresentazione. Si tratterebbe di adottare una procedura che punti alla descrizione non di un’essenza invariabile, bensì di variazioni irriducibili all’essenza. Avremo quindi una descrizione che non spiega (forse in virtù di un’episteme rovesciata). Che però lavora sul (nicciano) mondo delle cose prossime. È su questo terreno che si muove Fatichi: se indaga la vegetazione di un mare d’erba, linee e colori gli servono per uscire allo scoperto, quasi che la pittura offra l’opportunità per un’avventura tesa a dare visibilità ad un reale non concettualizzato e più rispettato nella concretezza del suo essere. Per questo, a proposito dei dipinti più significativi di Fatichi, si potrebbe parlare di “immagini” che esprimono il mondo come rappresentazioni sintetiche a posteriori. Perché? Perché solo attraverso la sintesi a posteriori è possibile afferrare quale, tra le possibilità di articolazione e di relazione degli elementi che la struttura del mondo possiede, è “conformata” all’ hic et nunc. Al contrario nella scienza le rappresentazioni analitiche, vere a priori, non esprimono il mondo perché registrano quale tra le sue possibilità di conformazione è verificabile sul metro dell’assoluto,  non dell’ hic et nunc ( cioè delle sue conformazioni empiriche: ma qui sarebbe d’obbligo un rimando al Wittgenstein del Tractatus  alle cui tesi Fatichi non è certo indifferente…).

Il discorso è troppo impegnativo per risolverlo in queste brevi righe: ma quanto si è detto forse serve a capire perché l’interrogazione sul linguaggio sia dal Fatichi sempre e comunque rituffata e misurata nel mondo. Solo così, attraverso una sorvegliata consapevole analisi del mezzo esposto alla dialettica delle cose, appunto all’urto con l’oscura fisicità delle stesse, si possono assicurare ulteriori e più complesse prese sul mondo. Quasi che la procedura dell’adaequatio si addica alla pittura più che quella della repraesentatio, con un singolare voltafaccia rispetto alle linee della conoscenza teorizzate da Cassirer, succube involontario, suo malgrado, del fascino esercitato dal paradigma scientifico. Diciamo pure che con Fatichi assistiamo ad una riabilitazione ontologica del sensibile, incoraggiata dal forte tasso di reciproca complicità (e collusione) che accomuna pratica pittorica e realtà.  L’intero processo presuppone appunto un vedere in grado di segnalare un “non-pensato” da dipingere e viceversa. Per questo si può sostenere, adottando un osservazione di Merleau-Ponty, che nel caso di Fatichi “vivere nella pittura è ancora respirare questo mondo, soprattutto per colui che nel mondo vede qualcosa da dipingere”. Sia che recuperi lo spessore (pittorico) della natura, sia che si riallacci alla tradizione italiana, in primis toscana, per il sapiente impatto formale o che affronti l’opaca banale quotidianità su sollecitazioni dell’esperienza pop, il nucleo fondativo dei suoi lavori è la certezza che in ogni caso quello che il pittore deve ricercare è una sempre rigenerata restituzione pittorica che dia voce e nuova vita al mondo stesso. Che sappia sempre meglio allertarci nei suoi confronti! Ma non è questa la strada anticipata da Cézanne delle nature morte realizzate nella seconda metà degli anni Ottanta. Un volta sopravvenuta la crisi irreversibile del paradigma prospettico quale struttura unificante al cui interno figure e cose trovano la loro identità relazionandosi le une con le altre, non rimane che tornare all’ “essere” del mondo. Il bellissimo schema utilizzato da Leonard Shlain (sulla scorta della celebre Natura morta con cesto di frutta del 1888-90) aiuta a capire come il pluralismo prospettico implicato da tali dipinti  segni l’inizio di quello che i gestalisti chiamerebbero radical shift: una rotazione di 180 gradi innescata, nel caso che ci interessa, dal desiderio si stringere un rapporto non “convenzionale” con la realtà.

diagramma

 

Diagramma che mostra come le varie parti in Cézanne siano in corretta prospettiva per occhi situati a differenti altezze e a differenti angoli di osservazione. Da Leonard Shlain Art & Physic. Parallel Vision in Space, Time & Light, Quill William Morrow, New York, 1991, p.117 .

 

 

 

Per concludere: non c’è solo quindi un rimando alle cose viste in un certo modo, ad  una particolare versione  del mondo, che ovviamente si definisce in rapporto a quelle promosse dagli altri saperi. C’è anche un deciso e voluto lasciarsi contaminare sempre e nuovamente dalla presenza del mondo, dalla sua densità fisica, da una fatticità ancora non catalogata. Fatichi ripropone con forza e senza mezzi termini quella cultura piena del visivo, retinica, che i tanti nipotini di Duchamp hanno, prematuramente ed incautamente, dato per superata.

Firenze 2 agosto 2010